Commento a “Forse un mattino andando in un’aria di vetro” di E.Montale.

[L’apparire del consueto]
Le parole chiave: inganno – consueto – miracolo designano rispettivamente: consueto: il quotidiano, ciò che appare; miracolo: ciò che è, al di là delle apparenze del quotidiano (dunque, ciò che è “alle spalle”, che metaforicamente significa non altro che la Sostanza. Ciò che è alle spalle designa sempre ciò che è fondamentale, nascosto, ciò che non appare e tuttavia determina); inganno: significa la differenza tra ciò che è e ciò che appare, l’aspetto negativo della percezione che sembra mostrarci il Reale, ci mostra invece soltanto il “mondo consueto”.
Il vero miracolo è ciò che è al di là delle apparenze: l’esistenza delle cose nuda e cruda, ciò che non può essere percepito, e non potendo essere percepito non può neanche essere detto, trasmesso agli altri.
Il senso del segreto è anche in questo: non solo nella consapevolezza che gli altri non crederebbero e non capirebbero, ma anche nella difficoltà oggettiva di comunicare qualcosa che, in mancanza di riferimenti a qualsivoglia determinazione sensibile, è oggettivamente difficile o impossibile da comunicare.

[Andando…tra gli uomini che non si voltano…]
Chi, invece, si è (ri)voltato?
Sono possibili almeno due letture dell’esperienza di Montale, una in chiave etica ed una in chiave gnoseologica.
Euridice si volta per (ri)conoscere Orfeo e, voltandosi, perde definitivamente la via del camminare che stava perseguendo per uscire dagli Inferi. Eva si (ri)volta addentando il frutto dell’albero della conoscenza, perdendo cosi la (ri)conoscenza divina.
Per Euridice l’errore è irreversibile; per Montale, per fortuna, reversibile, ma a patto di non voltarsi di nuovo, non troppo spesso, a patto di tacere e fingere anche con se stessi.
Il racconto e il mito, in realtà, sono paralleli e concordi: indietro v’è la perdizione, in avanti la salvezza. Ma in entrambi i casi, indietro, alle spalle, v’è la Verità. Orfeo è, in quanto amante, la Verità di Euridice, mentre la Verità di Montale, che nella poesia procede nella solitudine del proprio indagare (pur tra gli altri uomini) coincide con un Nulla: ma sempre della Verità si tratta. Euridice non avrà più scampo: vista la Verità una volta, sarà perduta per sempre; Montale ha un’altra possibilità, quella di non voltarsi mai più, di andar avanti nella menzogna per sopravvivere.
Se si resta nel gregge, che guarda sempre avanti, si resta protetti nel comune, condiviso mondo di false illusioni. Se ci si ribella al comune vedere, si perde la faticosa conquista del Proiettare, Costruire o Mentire, che ha dato luogo al mondo di pienezze nel quale ci sentiamo protetti. A noi la scelta. Ma la Verità, contemplata sia pure per un attimo, per un caso, non è possibile dimenticarla.
E’ sempre la conoscenza del Vero a perderci, la salvezza, invece, consiste nel continuare a credere alle cose fasullle che ci vengono propinate giorno dopo giorno. Ma Montale fa tabula rasa: tutte le nostre percezioni, nonchè le convinzioni, non sono altro che una proiezione del nostro Intelletto e della nostra Ragione sul Nulla che fa loro da fondamento. Si può sopravvivere ad una consapevolezza del genere?
C’è chi ci riesce, e chi no. In ogni caso il prezzo da pagare è alto. Montale paga col silenzio e dunque con la rinuncia a dire il vero. Adamo e Eva pagano con la fine di un’illusione: si scoprono nudi e, avendo scelto una volta, continueranno a dover scegliere per sempre. Cos’era il Paradiso Terrestre se non una illusione, una proiezione, una condizione delle loro menti le quali vedevano come “pieno” ciò che “in realtà” era la mancanza, il vuoto dell’esser-nudi?
Il percepirsi-concepirsi come nudi oppure completi di tutto (pur essendo, “in realtà”, nudi) risiede tutto nella auto-considerazione. Il peccato è nella considerazione che abbiamo di noi stessi. Sentirsi incompleti, Vuoti, è il peccato, sentirsi invece Pieni consiste nel quanto consideriamo corretto, giusto il nostro camminare. Il Pieno che percepiamo quotidianamente attorno a noi non è che, come il Paradiso, uno stato dell’anima, uno stato di grazia, che a fondamento non ha che un “reale” Vuoto. Detta in altri termini, è vano cercare la pienezza delle cose nell’oggettività del Reale, fuori di noi: meglio cercarla in un percorso di auto-fondazione, di fondazione interiore della stessa.

Volendo aderire strettamente ad una lettura in chiave gnoseologica di “Forse un Mattino”, con attenzione rivolta al tema dello Spazio che s’apre vuoto dietro il poeta, affermeremo che la Verità del Mondo che percepiamo è il Vuoto, il Nulla. Il resto è una nostra proiezione. Tolte alle cose Forma Colore Dimensione, che resta? Il loro puro “Essere”. Ma attenzione, che l’Essere non avrà nè Forma nè Colore nè Dimensione. Il mondo dell’Essere non è affatto come ingenuamente a prima vista lo immagineremmo, ovvero pressochè simile se non identico al nostro mondo percepito. In realtà, il mondo dell’Essere è un mondo nel quale l’unico predicato possibile, predicabile sull’ente, è che esso “è”. Tutti gli altri predicati perdono la loro predicabilità (che è poi l’unica proprietà di ogni predicato).  Dunque, abituati cosi come siamo a rappresentarci le cose grazie alla loro forma, o dimensioni, o caratteri quale il colore, il mondo dell’Essere rischia di somigliare terribilmente ad un mondo del Vuoto e del Nulla. Dunque è di questo che ci avverte Montale: noi crediamo di poter arrivare a desiderare la Verità delle cose; ma attenzione, siamo sicuri che, una volta ottenutala, questa non ci terrorizzi, non sia cosi stranamente difforme, aliena dalla realtà di illusioni cui siamo abituati? Meglio forse continuare ad accettare le cose come sono, meglio magari traguardarle da angolature leggermente diverse, ma mai completamente voltati a 180°, barattando il piano (illusorio, personale) del Percepito con quello dell’Essere: rischieremmo di restarne duramente colpiti, feriti, smarriti, terrorizzati. Se vogliamo sopravvivere, non dobbiamo rivoltare le zolle; meglio continuare su quanto, da tempo immemorabile, è seminato.

[Il Vuoto e Heidegger]
Heidegger, nella meravigliosa opera (sia pure non voluminosa come altre) “La questione del fondamento” giunge alle stesse conclusioni di Montale.
Analizzando la questione del fondamento (Grund) sin dagli inizi della filosofia occidentale, giunge a porsi una domanda: ma siamo sicuri che il fondamento sia qualcosa di “pieno”? Ovvero, se una tartaruga ha a fondamento un’altra tartaruga e cosi via, queste non costituiranno un treno infinito di tartarughe, e dove infine l’ultima tartaruga poggerà i suoi piedi? Non è che il vero fondamento delle cose esistenti con pienezza sia infine il Vuoto, l’Abisso, sulla cresta del quale camminiamo e sporgersi sul quale provoca orrore?
Insomma, siamo sicuri che la Sostanza, Una, Spinoziana, sia un Pieno? o forse, invece, un Vuoto del quale tutte le cose esistenti siano una modificazione?
Montale, per un attimo, risponde affermativamente a quest’ultima domanda, dopodichè la tiene come segreto: come sarebbe possibile parlarne ad altri senza essere presi per pazzi, senza provocare il panico e il terrore che sempre ci prende dinanzi al Vuoto?

Earthrise, NASA

Earthrise, NASA

[Alberi, case, colli]
Geniale la scrittura di “alberi case colli”: non separati da una virgola, ma da spazi!
Lo spazio invece della virgola significa la simultaneità della comparsa: le cose non sono separate (da virgole), ma appaiono simultaneamente (o quasi: il tempo di percepirle), d’improvviso. Ma cosa c’è tra cosa e cosa? Solo spazio, vuoto, e null’altro. Se togliamo le parole-cose, cosa resta? Resta la non-parola dello spazio vuoto del foglio, che rappresenta appunto il Nulla alle spalle, il Vuoto dietro “di me”. Il foglio dove la poesia è scritta, vuoto, privato delle parole che lo riempiono, è insomma l’ottima metafora del modo d’esistere delle cose nello Spazio: nel puro nulla, indeterminato, senza punti di riferimento. Le cose si riferiscono invece le une alle altre, la loro presenza (ed estensione) nello Spazio determina per noi la possibilità di orientarci nello Spazio e di stabilire relazioni nello stesso; le cose sono ciò che fanno per noi dello Spazio un Contesto. Togliendo le Cose, è tolto il Contesto, e tutto ciò che resta (il Nulla) provoca il terrore di ubriaco: perché tutti i punti di riferimento (che non sono gli assi di coordinate creati dalla nostra fantasia geometrica, ma proprio ed esclusivamente le cose a noi familiari) son tolti.

[Calvino, Heidegger, Nietzsche, Sacks]
Ha accennato una tesi molto profonda I.Calvino, nel suo commento alla poesia, quando afferma:

“(…) a comprendere il mondo com’è quando la mia percezione non gli attribuisce colore e forma di alberi case colli, brancolerò in una oscurità senza dimensioni né soggetti (…)”

Ciò che coglie Montale per un attimo è la percezione inusitata del mondo al di là della percezione consueta. E’ la risposta alla domanda: se per un attimo potessi percepire il mondo non come lo percepisco di solito, ma come esso veramente è, come lo percepirei? La risposta è: percepirei un semplice Nulla, un terrificante Vuoto.
L’operazione non si può veramente  compiere, è immaginaria: il mondo lo si percepisce come lo si percepisce, o non lo si percepisce affatto (fin che nella testa tutto funziona bene, e qui mi viene in mente O. Sacks). Ma l’esperienza del Nulla alle spalle, ovvero come fondamento delle cose che normalmente percepisco, può essere un’esperienza intellettiva. E in fondo è quel che Montale ha fatto, trasponendo però, in un’improbabile operazione, una consapevolezza intellettiva sul piano, di nuovo, percettivo.
Ciò non toglie che la tesi di Montale è corretta e profonda, ed è in linea con la consapevolezza nuova della questione del fondamento che percorre tutto il ‘900. Montale, insomma, è in asse con (Nietzsche ed)  Heidegger.

per approfondimenti:
http://eugeniomontale.xoom.it/txt_forse.html (riporta I. Calvino, «Forse un mattino andando», in AA.VV. Letture montaliane in occasione dell’80° compleanno del poeta, Genova, Bozzi, 1977, pp. 38-45)

~ di mgl su Maggio 14, 2014.

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